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C’è un grande prato verde​

gli spazi vuoti della società in movimento

In fin dei conti, bisogna pure prendere atto che il pensiero, quello proprio, ha una sua vita autonoma e le sue esigenze, un po' come l’anima che, sappiamo, possiamo seppellire nella quotidianità anche per lunghissimi periodi, a volte per tutta una vita, tanto è frenetica quella moderna.

L’anima è irrefrenabile quando ha necessità di esprimersi e lo fa in modo discontinuo, poiché se è vero che le emozioni si originano dal vissuto, hanno bisogno di maturare e lo fanno spesso inconsciamente. A volte invece le emozioni sono immediate, hanno un processo di emersione veloce, non occupano un tempo lungo. In entrambe le condizioni, l’espressione dell’anima ha caratteristiche di discontinuità.

Il pensiero invece è costante, quotidiano, matura momento per momento, si alimenta di dati, notizie, stimoli, elabora, assembla, riflette, confeziona, rivede, aggiusta, esprime.

E quando si arriva al punto in cui la riflessione su un tema più o meno circoscritto o ampio, matura, è necessario cominciare a formare il manufatto.

Quale in questo caso?

Inevitabilmente, il tema è la riflessione sulle società moderne, sulla condizione ordinaria di un cittadino che vive, al di là delle specificità delle storie, una esistenza normale nella pur unicità di ogni essere umano. La riflessione è sulla rappresentanza, non solo politica, sull’evoluzione dei sistemi di vita, il tutto all’interno di una dimensione di analisi non necessariamente specialistica nel senso stretto del sapere scientifico, ma semplicemente attenta all’osservazione dei tratti principali del nostro vivere, pensare, elaborare. Per scegliere.

La struttura bipolare con la contrapposizione storica delle ideologie, destra, sinistra, non è più attuale, né soddisfacente a rappresentare le società nella loro complessità. Quello che sarà, sarà necessariamente un nuovo.

Esiste però un problema di fondo: in che modo conciliare la diversità dell’essere, che ha una sua espressione forte e legittima non solo nell’interiorità ma anche nell’apparire, con la concreta possibilità che le regole di convivenza e le azioni implementartici delle formulazioni (e riformulazioni) culturali possano accogliere la specificità, la particolarità, direi l’unicità dell’essere?

È un problema non solo di definire i contenuti culturali di un luogo, ma di concreta condizione di esistenza, che genera quindi l’evoluzione delle norme. Si può conciliare, accettare, il pensiero per cui il concetto di normalità si definisce -e si impone- attraverso la conquista di una maggioranza anche minoritaria ma relativamente sufficiente a garantire l’occupazione di posizioni di potere che poi agiscono in senso normativo, di indirizzo, di formulazione, nonché di scelta?

Si può imporre la cultura per legge?

Quanto, la divergenza culturale, può inasprire il concreto del vivere?

E, soprattutto, quanto può ostacolare la via della trasformazione verso il mondo delle coesistenze?

È una riflessione molto attinente alla contemporaneità considerando lo scontro all’interno delle società tra i diversi gruppi sociali e di pensiero. Scontro catalogato secondo i parametri classici, destra-sinistra, conservatori-progressisti, tradizionalisti-innovatori, società tecnologica-società umanistica e poi, in aggiunta, i diversi parametri di segmentazione, pubblico-privato, nord-sud, ricchi-poveri, società delle tutele-società del rischio, inclusi-esclusi, visibili-invisibili, società della burocrazia che prevale sul vissuto-società che cerca condizioni di vissuto nei vincoli della burocrazia. E via di seguito.

Quando il mondo economico è diventato industriale scoprendo le economie di scala, si è partiti dalla produzione e collocazione di offerte standard con ridotte possibilità di personalizzazione. Pian piano la competizione e l’evoluzione tecnologica hanno portato all’estremo della personalizzazione, elevando la complessità con tutte le conseguenze nei modelli produttivi e poi distributivi e di post-vendita. Le società in un certo senso si sono trasformate in modo speculare, subendo la personalizzazione delle offerte, sviluppando al proprio interno quelle dinamiche in cui i cittadini sono diventati, inconsciamente, attori e portatori delle istanze di stimolo alla loro personalizzazione.

Parimenti, allo stesso modo in cui l’estrema diversificazione ha inciso sull’esplosione della complessità, all’interno delle società si è sviluppata complessità, disomogeneità, in uno, personalizzazione. In questo mentre e, soprattutto, in questo ventre enorme delle società, i gruppi sono cresciuti nel numero, nella differenziazione culturale, di interessi e di istanze, generando una complessità tale che trovare la via di ricomposizione, il massimo comune denominatore, ha il sapore della grande impresa. 

Nelle società in realtà è accaduto molto più di quanto si possa pensare, il mondo globalizzato come lo abbiamo conosciuto per come si è sviluppato sin dall’origine della sua espansione, ha generato cambiamenti, nei modelli sociali, nelle relazioni, modificando non solo gli stili di vita, ma anche il rapporto tra essere, vivere e apparire. Molti dei comportamenti sociali, sia personali che relazionali, si sono storicamente sviluppati all’interno di modelli di pensiero e di valori sia di tipo politico-culturale, che religioso. Lo sviluppo del mondo globalizzato e la sua innegabile attitudine ad espandere valori economici anche se distribuiti in modo iniquo favorendo la concentrazione della ricchezza, ha comunque permesso, direi concesso, possibilità di esistenza economica, di indipendenza. In questo senso i nuclei centrali di fondamento delle società, il nucleo familiare, si è ritrovato soggetto a più forze di rottura, cioè da una parte il peso della discontinuità lavorativa quando il modello globale è entrato in crisi e sono entrati in crisi i modelli economici legati ai volumi; dall’altra le maggiori possibilità economiche hanno consentito più indipendenza e, allo stesso tempo, la trasformazione dei ruoli. La percezione della possibilità concreta di poter comunque e sempre realizzare percorsi di indipendenza e quindi di rinnovo dell’esistenza, l’evoluzione culturale che ha pian piano rotto le resistenze  sociali all’accettazione delle configurazioni dell’essere diverse rispetto a quelle normalmente accettate nei modelli tradizionali, ha dato spinta alla possibilità di affermare la propria individualità che in precedenza, nei modelli tradizionali, veniva compressa all’interno di modelli di giudizio pressanti, stringenti che, come sempre, esplicavano la loro forza nel comprimere le possibilità, sia economiche che in generale di accettazione e affermazione nella società.

Al di là dell’esistenza di cause specifiche che hanno determinato, nella modernità, modalità dell’essere differenti rispetto alla visione tradizionale, possiamo ragionevolmente pensare che le variegate configurazioni dell’essere della società moderna non sono una novità, cioè ci sono sempre state, i fattori evolutivi culturali, nell’evolversi della comunicazione ne hanno fatto emergere in modo visibile l’esistenza e direi la numerosità. I sistemi di pensiero invece, quelli che caratterizzano le ideologie e che hanno la peculiare caratteristica di “aggregare”, non si sono evoluti, sono rimasti fermi nell’impostazione storica, molti si sono adeguati semplicemente all’evoluzione della società nella sua predominanza di connotazione economica, in cui la competitività è lo strumento di base e il profitto il fine primo e ultimo, sempre con le dovute eccezioni.

Quello che oggi possiamo osservare nelle società occidentali è proprio la differenza che esiste tra la condizione individuale del vissuto e le ideologie e i sistemi di pensiero che non sono più in grado di attrarre, se non in senso lato, molto ampio.

Una sorta di unificazione e di convergenza su sentimenti ampi che poco hanno l’attitudine ad incidere nel concreto del vivere, cioè non hanno funzione di motivazionale, di indirizzo dei comportamenti.

Un’osservazione che penso sia possibile estendere ai modelli sociali legali fondati sulle norme scritte in epoche passate in cui i fenomeni attuali non esistevano e che quindi oggi sono insufficienti a rappresentare le istanze che arrivano dalla società civile. In concreto quello che osserviamo è il disallineamento tra il vissuto e i sistemi sia normativi che di pensiero non più in grado di incontrarsi.  E’ naturale, basta utilizzare il ragionamento, che a questo punto ci sono almeno due opzioni principali: l’adeguamento dei modelli sociali e di pensiero, per recepire le modificate condizioni dell’essere, oppure partendo dalla relativa non modificabilità di questi ultimi, porre in essere tutte le azioni che il potere, cioè la parte sociale e culturale azionista di riferimento del mondo tradizionale, ritiene di implementare per riportare i singoli individui all’interno di quei modelli, sociali e di pensiero.  Detto in modo forse grezzo, possiamo connotare le due azioni come quelle proprie dei progressisti, da una parte e conservatori dall’altra.  Per fare un esempio, basta osservare il lavoro di riformulazione culturale in atto in molte società, quello che opera sull’aspetto valoriale, di restaurazione di modelli di comportamento che erano alla base delle società del passato, nelle diverse epoche.

Senza entrare nel merito dell’argomento, faccio solo notare quali problematiche siamo chiamati a gestire nel contemporaneo, perché non c’è un senso assoluto del giusto o dello sbagliato, c’è invece un senso della comprensione della fragilità delle possibilità individuali in una fase storica in cui si tende all’operazione inversa a quella che si è generata negli ultimi decenni nel mondo globalizzato in cui vi era  la ricerca della realizzazione dei percorsi di vita unici, legati alla individuale specificità. Naturalmente le azioni di ricollocazione dei comportamenti individuali all’interno dei modelli tradizionali, chiama in causa la necessità di individuare i modelli, il loro contesto ideologico-culturale-storico di riferimento e naturalmente chi ha il compito di gestire le azioni.

Siamo al punto, è la società nel suo complesso o nell’espressione della élite di riferimento che ha la funzione di indirizzo?

I partiti politici chiaramente operano nell’ambito di modelli di riferimento che, per quanto semplificati nella contrapposizione di due blocchi, anche nelle culture abituate a ragionare in termini di alternanza, non sono in grado oggi di esprimere una prevalenza significativa nel senso di imporre in toto la specificità del pensiero e i tratti del proprio modello di riferimento.

Di fondo, riflettete, cos’è che veramente manca? Perché in un’epoca di elevata evoluzione tecnologica e di relativo benessere economico (relativo perché dal covid al conflitto molto sta cambiando anche in termini reali di esistenza), non siamo in grado di implementare società di condivisione, di accoglienza, di inclusione, di assenza di conflitti, di benessere omogeneamente diffuso seppur diversamente distribuito?  Vedo un grande problema nei sistemi legali e di pensiero e, devo dire, in quelli legati alla spiritualità, alle religioni. Che si sono saldati tra loro, si sono evoluti parimenti, quasi specularmente, combattendo spesso le stesse battaglie, condividendo azioni, riformulazioni, imponendo principi e visioni del mondo.

E spesso nel loro riferimento culturale che guarda sempre al passato e all’immutabilità di alcuni capisaldi, perdono di vista l’evoluzione delle società che non sono altro che il risultato dell’evoluzione individuale, non solo del pensiero, del comportamento, del vivere, ma anche degli strumenti a disposizione, del linguaggio relazionale, del tempo in cui la fase di apprendimento si evolve nel senso della modifica della tempistica e della cadenza dei tempi. E non ci si preoccupa di valutare le fattive possibilità di evolvere anche nel senso naturale, dell’umanità sociale che si aggrega all’interno di un nucleo centrale ultimo, quello che fa riferimento a qualunque tipo di relazione che possiamo definire relazionale nella sua accezione ampia, quindi non solo tradizionale.

Le pressioni sui percorsi di vita sono su più livelli, dalla precarietà del lavoro, dalla compressione dei redditi, dalle spinte inflattive, dal disallineamento tra possibilità di guadagno e onerosità del vivere. In aggiunta, la problematica dell’accoglimento delle nuove fattispecie dell’essere e del vivere anche nel sistema delle regole. Le modifiche all’adeguamento trovano spesso dei paletti insormontabili nella chiusura dei gruppi sociali di pensiero che fondano il loro sistema culturale sull’immodificabilità di alcuni principi. Eppure, per alcuni di questi gruppi, basterebbe “osservare” pur anche solo con la mente, le vicende storiche e il rapporto che ha caratterizzato le relazioni umane dei grandi spiriti per rendersi conto che esistono altre possibilità di interpretazione. Non si è sviluppata, in molte delle declinazioni di pensiero, la capacità di osservare l’umanità nella sua individualità, nelle sue esigenze, nelle sue aspirazioni, nell’alternanza dell’esistenza nella dimensione universale dei contrapposti che sono l’essenza dell’unico e nel cui ambito ci si muove. Ci si è collocati, tradizionalmente, nella dimensione polarizzata del solo bene o del solo male, ignorando che la vita è un percorso, a volte in disequilibrio, tra questi due poli contrapposti. È naturale, tanto più si stringe il concetto di ciò che è bene e ciò che è male, tanto più i modelli stringono, tanto più il vissuto è complesso, tanto più è la forza naturale ad uscire dai modelli, tanto più è la forza di reazione per riconnettere gli stessi ai modelli prefigurati non guardando all’individualità dell’odierno, ma ai modelli del passato.

Siamo nel presente.

A questo punto, nelle scelte individuali, cosa prevale? Qual è il driver decisivo nei momenti topici in cui si partecipa alla scelta del contesto direzionale delle società? Sono la condizione economica nel suo complesso, o la possibilità dell’esercizio di diritti che in sostanza significa la libertà individuale di comportamento non in senso assoluto ma nell'esercizio del patrimonio dei diritti incomprimibili? Oppure una graduazione, un mix, che ottimizza, sempre comunque in un’ottica di valutazione personale, tutti gli aspetti del vivere? In fin dei conti, quello che voglio esprimere, è il senso della necessità di praticare forme di educazione all’esercizio del pensiero in grado nel tempo di far maturare le condizioni culturali in cui nel sistema di regole di convivenza, convivano regole di esercizio della propria individualità.

Il che significa che il pensiero, nei diversi settori del vivere, non è un manufatto standard preconfezionato e pronto per essere servito lungo i percorsi di vita, è invece quel sistema culturale e di esperienza proprio di ogni individualità che si rende omogeneo in relazione ad un parametro territoriale o culturale di gruppo, che può far riferimento anche alla tradizione o se ne può distaccare seguendo più l'innovazione vivendo più il presente, ma che è comunque elemento di caratterizzazione di una sensibilità evolutiva che guarda alla sostenibilità del vivere e al rapporto tra evoluzione dell’umano in relazione a ciò che è società, natura e Universo.

Porre l’attenzione sulla necessità di cambiamento, cosa vuol dire? Vuol dire rivisitazione completa dell’esperienza culturale storica? Vuol dire completo abbandono della tradizione? Attenzione, esco volentieri anche un po' dalle righe, per dire, non fatevi fregare.  La comunicazione veloce del presente, il ribaltamento repentino di posizionamenti, pensieri e umori, è propria del tempo presente, molto veloce, dove le metodiche proprie dell’efficienza di business si sono allargate a dismisura invadendo quasi tutti i campi. L’efficientismo spinto, il fare a tutti i costi, più si produce, più si è pieni e meglio è, anche nella dimensione delle attività del terzo settore. E, nella contrapposizione dei gruppi di gestione delle cose, l’articolazione del pensiero diventa oggetto preconfezionato, stretto, sintetico; argomenti che richiederebbero un’articolazione completa, si riducono a prodotti “fru fru”, veicolati nelle ripetitive uscite sui canali di comunicazione.

Ne consegue che ogni volta che qualcuno si approccia ad esprimere un pensiero differente, magari non necessariamente mediato, ma che parte dall’osservazione del vissuto, da una propria sensibilità, dall’essere parte di un presente con un passato e che immagina il futuro, quando si discosta dalle configurazioni tipiche di una parte, viene connotato o di parte avversa o addirittura fuori dal tempo. E si diventa di conseguenza contraddittori, poiché non collocabili sempre da una parte.

E dal momento che le strategie comunicative hanno alla base studi profondi e analitici sulle dinamiche di comportamento, non sempre il fruitore è in grado di distinguere, di capire l’obiettivo della comunicazione stessa, in sostanza di essere completamente “armato” di strumenti per orientarsi, non rendendosi conto della necessità di approfondimento. I contesti sociali attuali sono molto basati sulla comunicazione e sui canali dove passano le riformulazioni culturali.

Solo recentemente, con riferimento all’epoca contemporanea che abbraccia più anni, si sono avviati processi di approfondimento e di incontro, anche in luoghi differenti dai canali tradizionali se vogliamo riferirci ai media. Si è tornati nelle piazze per esprimere non solo dissensi, ma anche il proprio punto di vista.

Ecco, tornando al punto di partenza della precisazione, la necessità di innovare non significa abbandono totale dei valori sia culturali che spirituali della tradizione. Chi ha desiderio di innovare non necessariamente ripudia la tradizione, chi ama e desidera un mondo aperto e fondato sullo scambio non rifiuta la località. La cultura non è alternativamente o locale o globale, è sia locale che globale. Quindi, ancora una volta, la necessità di segmentazione è propria del magazziniere della storia e dei suoi adepti collaboratori sparsi nella società e nei territori, che hanno la necessità di catalogare per decidere come comportarsi con il soggetto con cui interagiscono, per valutarne il requisito di fattibilità per l’implementazione successiva di ogni azione, dalla più esterna a quella più integrata. Voglio inoltre mettere in risalto l’elemento di rigidità che è proprio della forte connotazione culturale, sia di gruppo che singola. Una considerazione che vale anche per i soggetti e le realtà della competenza e del sapere accreditato i cui capisaldi culturali e di pensiero sono ben ancorati in virtù di percorsi di esperienza e di studio che ne conferiscono senza dubbio autorità, ma che comunque sarebbe desiderabile si abbinassero anche alla capacità di cogliere i cambiamenti, contestualizzandoli alla contemporaneità, in cui la chiave di lettura del passato e il sempre verde punto di ritorno, potrebbe non essere più valido.

Utilizzo il dubitativo per non cadere nel rischio del dogma, è così e basta. Sono convinto, e l’ho scritto nel passato, che il tempo presente sia di totale discontinuità, uno stadio di trasformazione che possiamo chiamare evolutivo o involutivo nei diversi aspetti, a seconda del punto di vista.

Nelle esperienze del passato che riguardano i fondamenti culturali di conoscenza dei fenomeni delle società nella sua declinazione, troveremo dei tratti sempre validi, ciò che cambia è il contesto in cui essi si esprimono perché cambiano le società in funzione della combinazione tra evoluzione tecnologica ed evoluzione individuale, del pensiero, del comportamento e dell’essere. La capacità quindi di combinare la conservazione con l’innovazione è il vero tratto innovativo, dove deve formarsi una capacità all’esercizio del pensiero che certamente non può essere un esercizio senza attrezzi, cioè senza avere riferimenti culturali. Voglio dire che quando si nasce, naturalmente si è condizionati dal sistema culturale esterno, che però si evolve, in alcuni spazi di più, in altri di meno. In alcuni con più tempo, in altri molto più rapidamente. Spazio e tempo.

E con l’incrocio delle genti e delle culture negli spazi, si sperimentano nuove istanze che contribuiscono ai cambiamenti nei luoghi dando vita a nuova cultura. Le modalità con cui gli ingredienti per il confezionamento del prodotto cultura si combinano tra di loro, il loro peso, la difesa degli elementi di base, le spinte alle innovazioni e la sua graduazione, è quello di cui stiamo parlando, in fin dei conti è il cuore della nostra riflessione.

Il sistema di rappresentanza, e quello politico, è uno degli strumenti, dei luoghi di impulso a che la dimensione culturale prenda una direzione piuttosto che un’altra. Restano sempre validi tutti gli altri protagonisti, i presidi di contribuzione, in primis la cultura dei territori, che esprimono la loro forza di tradizione e che nella contemporaneità devono guardarsi dal considerare come un pericolo quello di essere sistemi aperti, cioè pronti ad accogliere persone, recepirne le esperienze per attrarre e diventare realtà fondamentalmente con caratteristiche proprie ma connesse con il mondo.

Per queste ragioni personalmente mi trovo in un’area di pensiero che ha grandi difficoltà a collocarsi laddove c’è forte connotazione su tanti aspetti del vivere, in sostanza nei punti polarizzati.

Ecco perché la percezione del presente mi porta a vedere l’esistenza di una grande area di pascolo, di ritrovo, in cui i gruppi fruitori del vivere la bellezza del vivere, possono farlo pacificamente, in solidarietà, avendo definito pacificamente anche se nel dibattito, le regole di convivenza in quel o quei  luoghi.

Cosa ostacola fattivamente l’avvio dei processi di cambiamento della mentalità nelle nostre società? Cosa è di maggiore impedimento?

Certamente osservare i tratti caratteristici della società attuale (mi riferisco, come in precedenza, sempre all’area occidentale), risultato di ciò che l’epoca globalizzata ha prodotto.

Il punto di arrivo e il suo risultato finale ci fanno comprendere, riflettendo bene e osservando alcuni macro-dati, che la discontinuità del presente rispetto a tutte le epoche del passato è unica.

La fase si è caratterizzata per un enorme incremento di volumi, la ricchezza si è accumulata, molti sono rimasti schiacciati dal crollo. Oggi il mercato, da solo, non è più in grado di riavviare autonomamente i percorsi di riequilibrio, anzi, più si va avanti e più si altera la forbice tra ciò che è in grado di accumulare e dall’altra, l’area della sostenibilità, dove si sperimenta la fatica del vivere e crescono enormi disagi.

Quest’ultimo universo è composito, perché non parliamo solo dell’area di indigenti, parliamo, progredendo verso il livello successivo, anche di quella fascia che riesce a mantenersi ma ha difficoltà, di chi affronta il quotidiano ma non lo straordinario, di chi non riesce a risparmiare ed accumulare riserve di garanzia, di chi è in equilibrio nel presente ma si potrà trovare in difficoltà se cambia il suo scenario, la sua condizione quando arriva l’evento, purtroppo non più straordinario, come quello di una perdita di posto di lavoro.

Tutto questo, che abbraccia l’universo privato, si combina con l’innalzamento dei debiti statali e con la necessità di far quadrare, a tutti i costi, l’attuale sistema di relazione tra quanto uno Stato può in termini di risorse prodotte in un esercizio e quanto può spendere in relazione al proprio indebitamento.

In un contesto in cui la soluzione di ogni grande problema (e anche piccolo) richiede investimenti, quindi nuovo debito e nuovi flussi di rimborso che dovranno essere comunque pagati da ricchezza prodotta, o naturalmente, da nuovo debito che si porta dietro il suo fardello di oneri, gli interessi.

In definitiva, anche cambiando la veste rispetto all’approccio monetario, la sostanza è la stessa, cioè alla fine si confluisce quasi sempre con un incremento di indebitamento, anche se con il riduttore del passaggio attraverso i vincoli di bilancio, di deficit e simili.

Quando ascolto gli intellettuali, i politologi, insomma gli esponenti del mondo della cultura accreditata, mi chiedo come mai non pongano mai l’accento sull’aspetto della funzione di creazione di ricchezza propria degli Stati. È il cuore centrale della politica. Nel passato il predominio di un territorio da parte di monarchi conferiva loro, attraverso la forza, il potere di riscuotere le tasse, accumulando ricchezza. Il potere era lì. Poi nel tempo, la forza si è spostava sui mercanti che grazie allo sviluppo del commercio accumulavano anche loro moneta poi prestata, fondando così le prime banche. E così successivamente con le economie di scala, le ricchezze si sono accumulate nel grande capitale.

Cosa ha permesso di superare la prevalenza di un gruppo rispetto alla collettività, se non proprio la funzione monetaria degli Stati in grado di produrla in teoria in modo illimitato per metterla a disposizione del popolo? Questa grezza ricostruzione serve solo a far comprendere quanto la funzione di creazione di risorse e la possibilità di disporne sia fondamentale proprio per la politica. Si commenta che la politica, anche della località, abbia perso la sua forza, il suo ruolo. Vi siete chiesti cos’è la politica senza risorse?

D’altra parte, quello che oggi la politica potrebbe far bene, nella piena produzione dell’esperienza del dibattito parlamentare, è quello di discutere sul sistema delle regole, dei diritti che impattano sia in termini economici che sui diritti puri, cioè non le relazioni economiche in cui il riflesso è indiretto. Sotto molti aspetti, anche qui le grandi riforme economiche scontano la scarsità di risorse, i grandi temi non vengono affrontati o comunque generando molta conflittualità, restano sospesi.

Il grande problema delle aree occidentali è quello di dover sperimentare, a differenza di altre aree, l’esperienza della retrocessione. Mi spiego meglio.

Se guardiamo l’andamento del ciclo economico, ci sono fasi di espansione, poi di maturità, poi di declino. E se vediamo un grafico di borsa, è facile osservare, anche per un neofita, che gli andamenti sono altalenanti: in generale la fase di crescita è sempre accompagnata da riduzioni, da storni, più o meno piccole retrocessioni, quindi recessioni. In queste fasi si generano sempre non solo distruzione di ricchezza finanziaria, ma anche di valori reali, crescita di precarietà, di fallimenti, di riduzione di possibilità, di retrocessioni nelle condizioni del vivere.

Consideriamo il periodo globale come un unico periodo, vedremo una grande crescita e una grande retrocessione, un grande storno. A partire dal 2008, i soggetti, imprese e persone, rimasti travolti dall’onda della crisi sono stati un numero elevatissimo. Non solo, passata l’onda, la fotografia è quella dell’esistenza di poche oasi (sempre in senso relativo naturalmente), e di una grande, grandissima, sacca di difficoltà, anche di sofferenza. E quindi, oggi, il mercato così com’è, fatto di regole competitive che privilegiano il capitale, continua ad offrire opportunità e possibilità a chi ha, a toglierle a chi non ha.

Lo sviluppo naturale è quello di un sistema/apparato di offerta pronto per la collocazione e dall’altra l’enorme parco buoi che però è molto, molto più povero, ha meno risorse in quanto l’accesso al credito è molto più difficile, è meno numeroso perché i mercati e le aree si stanno ridefinendo.

È il senso quindi della retrocessione dei valori prodotti in molti settori, è il senso della perdita di margini operativi che mettono a nudo la sostenibilità delle attività economiche, dal momento che i più piccoli, soprattutto, hanno limitate possibilità di assorbire perdite e limitate possibilità di formulare percorsi di ristrutturazione, di turnaround.

Ecco perché il ruolo della politica e degli Stati è centrale, in senso di sostegno, di politiche di indirizzo, di formulazione normativa, di regole da inserire e quelle da togliere, in generale nel percorso di alleggerimento burocratico che ha il senso del trade off tra garantire condizioni di produzione di ricchezza, e quindi di vissuto, o accumulare azioni ed evidenze documentali, alimentare banche dati, assorbire risorse per attività che poi nulla porteranno se non la rarefazione anche di sé stessi (perché se non c’è attività economica, non c’è neanche più bisogno di burocrazia).

Il punto di arrivo, per il momento, è questo; come ripensare i modelli di area in cui si possa attivare il riequilibrio, rialimentando di acqua le zone più in basso, consentendo percorsi di vita di sostenibilità, cioè in sostanza ridisegnando l’equilibrio degli elementi economici, le componenti reali e quelle finanziarie.

Cioè, in sostanza, ci deve essere un equilibrio tra componenti di base del vissuto che sono i costi di vita, tra il reddito prodotto, il costo del denaro e specularmente, il suo rendimento. Dal momento che da una parte troviamo il cittadino, l’utente, il cliente, il percettore e produttore di un reddito, specularmente dall’altra troviamo l’impresa, il produttore, il fornitore che offrono beni e servizi. Nel rapporto tra le due parti troviamo il senso dell’obiettivo della formulazione di una nuova economia, della modifica degli attuali modelli. Che certo chiama in causa le regole del capitale, le regole della finanza, le regole della parte pubblica che interviene nel senso di regolamentarne il rapporto. E, inevitabilmente, l’equilibrio non può non scontare il combattimento, se vogliamo, tra obiettivi di profitto, da una parte, e qualità del vivere nel senso di durezza o di morbidità dall’altra.

Va da sé che anche in questo caso come negli aspetti legati al rapporto tra dimensione locale e globale, tra tradizione e innovazione, il problema non è se le società del futuro saranno capitalistiche o stataliste, è una dicotomia che va superata in quanto anche il capitale per quanto privato è Stato, è parte fondamentale dello Stato, gioca un ruolo a volte anche più grande del singolo Stato e lo è ancor di più oggi che abbiamo player sempre più grandi, non solo nel tecnologico.

Non è quindi il punto quello dell’avversione al capitale (e non certo dal mio punto di vista che vengo dalla borghesia professionale che ha vissuto il mondo dell’impresa), ma il senso di trovare condizioni ingegnerizzate per cui i rapporti tra le componenti sociali siano sempre in equilibrio, dinamico, ma equilibrio.

È certo il ruolo centrale del capitale nella trasformazione del modello sociale perché non ci sono solo le istanze di riequilibrio nel rapporto di sostenibilità del vissuto che vede i cittadini protagonisti sia come produttori di reddito che come utenti.  C’è in gioco anche il cambiamento dei sistemi produttivi in senso ambientale, l’evoluzione tecnologica dei sistemi software e la trasformazione dei processi con l’AI.

Un cambiamento di modello enorme, in cui il ruolo attivo delle componenti sociali è in atto, tra trasformazioni, conflitti e ricerca degli assetti di ottimizzazione in percorsi che generano comunque molta contrapposizione.

Personalmente sono dalla parte culturale, anche per appartenenza sociale, che ritiene fondamentale, imprescindibile, tornare ad occuparsi di ricostruire l’omogeneità e l’equilibrio nelle società, partendo dal basso, costruendo condizioni di equilibrio e sostenibilità non solo di chi è in difficolta, ma di chi ha meno possibilità, di chi vive di reddito, e non scordiamo che in questa grande area, ci sono i giovani con il loro percorso di vita.

Quando parlo di questa grande area, non mi riferisco solo a chi ha difficoltà più o meno contingenti, mi riferisco al miglioramento delle condizioni di vita anche delle classi medie, la sua ricostruzione, quella della possibilità dei percorsi di crescita.

Per avviare i processi di cambiamento, bisogna essere disposti ad operare in tal senso e chiaramente i presidi di pensiero fortemente polarizzati e caratterizzati, offrono resistenze ai cambiamenti.

I paletti più stringenti li possiamo trovare in quelle dimensioni dove le connotazioni sono fortemente identitarie, non aperte all’accettazione delle differenze, chiuse nei sistemi di formazione e trasferimento delle conoscenze nel tempo.

È, in definitiva, parte della contrapposizione tra mondo accreditato, che sente fortemente il vincolo della dimensione economica che esplica la sua influenza in quasi tutti i settori, e mondo della diversa pratica che cerca il suo spazio, anche nell’affermazione della sua esistenza economica.

Ci muoviamo all’interno di questa complessità, dove il parametro che più di tutti può portare distorsione nelle analisi è il fattore tempo, l’incrocio tra tempo lungo e tempo breve.

E, come sempre, mi torna sempre più chiaro, sempre più forte, il ruolo chiave nel loro incrociarsi di due parametri: spazio e tempo.

Lo spazio, quello che oggi è diventato un problema da gestire a livello globale, vedi flussi migratori di ogni tipo, tempo, che va dalla semplice emergenza nel quotidiano alle attività di pianificazione delle esistenze.

E come certo potrete facilmente notare, le vicende contemporanee, almeno per il momento, stanno restringendo entrambe i parametri: gli spazi, sempre più ridotti, i tempi, ancora sempre più marcatamente spinti nel breve, nella gestione dell’emergenza, nella difficoltà della pianificazione.

E ricordo a tutti che nelle società delle economie moderne, l’elemento di raccordo del tempo, tra presente e futuro, è il debito che ha l’attitudine di unire, fa da ponte.

Il debito però quando è collocato autonomamente sopra l’economia reale, insiste su di esso con la sua struttura, il suo peso, le sue caratteristiche, le sue vie, che devono essere tali per cui ciò che c’è sotto non ne resti schiacciato, soffocato.

Aria, quello di cui oggi si ha una tangibile e concreta necessità è la necessità di respirare in tutti i sensi, nelle condizioni economiche del vissuto, nell’espressione della propria individualità pur nel contesto di condivisione, nell’esercizio dei diritti, nella pratica della pianificazione, nel vivere la propria esistenza. Il o i processi di riformulazione culturale in atto nell’area occidentale nel senso più ampio, poi Continentale, poi territoriale Nazionale, sono pressanti, stringono, soffocano. 

La contrapposizione culturale e lo scontro nell’ambito della società tra i diversi portatori di interessi soprattutto sui grandi temi di trasformazione delle economie e delle società, in primis sul tema ambientale, logora, in particolare quando le posizioni sono estremizzate, e si trascura la necessità di tener conto di tutte le esigenze, tra cui quella di poter vivere nel presente. E i conflitti tra posizioni apparentemente confliggenti in particolare sul tema economico [ci tornerò] oggetto di uno scontro quotidiano, tolgono respiro, rendono il clima opprimente, certamente non fanno bene alle aspettative che sappiamo giocano un ruolo fondamentale nell’economia e nel vissuto. Ecco perché c’è bisogno di recuperare un clima più sereno, meno estremizzato, meno confliggente e con gli animi più predisposti alla mediazione e alla comprensione della necessità di realizzare, questa volta, percorsi certamente complicati nell’implementazione, tra scarsità di risorse e abbondanza dei paletti.

C’è un concreto bisogno di uno spazio aperto in cui vivere pacificamente e respirare a pieni polmoni, in cui potersi esprimere e gustare non lo spettacolo dei galli in combattimento, ma lo spettacolo del praticare la vita da umani che non dimentica cosa lo contraddistingue, l’intelligenza, l’anima, il cuore.

  

C’è bisogno di respirare, di vivere, c’è bisogno di aria.

Aria.

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PROSEGUE​​​​

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