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Cosa Succede in Città

Volume III

 

presenta

"Cultura e spazio" - parte II, paragrafo 2 dati macro

a cura di

Nobody, homeless digitale, thinker

10-6-2024

 

NEXTHING

Cultura e Spazio

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Vediamo alcuni dati macro: dati sul mercato del lavoro 2019-2023 prospetto incidenze percentuali, da cartogramma Istat 3 trimestre – dati macro su debito pubblico, prodotto interno lordo, entrate

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A questo punto, aggiungo alla riflessione alcuni dati macro economici (stiamo parlando di cultura e spazio, cioè di vita, quindi economia), per poi proseguire ritornando sui sistemi di vita.

Popolazione: varia di poco ma tendenzialmente decresce, comunque non cresce. Un dato su cui riflettere è il numero di persone fuori dal mercato del lavoro, più della metà, in sostanza la quota produttiva resta sostanzialmente immutata. I dipendenti rappresentano la quota prevalente, naturalmente al suo interno, la quota del comparto privato è a sua volta prevalente, con una alta incidenza di dipendenti nel settore delle PMI.

Conti economici nazionali: bisogna tenere conto del periodo Covid, in qualsiasi caso si evidenzia un incremento del pil nel 2023 probabilmente dovuto sia al fenomeno inflattivo che a misure specifiche come il superbonus, trascinando anche l’incremento di entrate fiscali; passiamo da 471.622 milioni di euro del 2019 ai 636.217 del 2023. Siamo però passati da un avanzo del 2019 ad un disavanzo, con circa 100 miliardi di differenza, a cui si aggiunge l’incremento di interessi passivi, circa 18 miliardi.

Un tema sempre dibattuto, su tutti, è il tema della tassazione. Guardate il prospetto per farvi un’idea[1]. Il monte contribuenti costante e così la quota fuori mercato del lavoro, con una incidenza molto alta, il fabbisogno finanziario cresce sempre di più. E con la tassazione si drenano risorse a sistema, sottraendole dal circuito della spesa, mandando fuori sostenibilità la vita delle persone.

Il problema sarebbe, secondo una consolidata narrazione, che tutto dipende dalla tassazione, dall’evasione. Guardate i dati e fatevi un’idea. La forza produttiva è sostanzialmente immutata, le entrate fiscali si basano su Irpef e Imposte indirette tra cui l’IVA, che grava sul consumatore finale e incide in modo inversamente proporzionale al diminuire del reddito, cioè sono penalizzati i redditi più bassi. Cosa si può chiedere di più alla tassazione, al netto della necessaria attività di recupero e di contrasto alla evasione? Non può funzionare, non può essere la tassazione l’unico elemento, quello cardine, della sostenibilità.

La domanda è: come faremo ad aggiungere quote di rimborso di ulteriori debiti? La narrazione che tutto dipende dalla tassazione è assolutamente errata, lo è nel sistema attuale di concezione della finanza pubblica e nel sistema finanziario che abbiamo adottato; quindi, è così nei numeri e nella logica dell’oggi, ma è del tutto evidente che non può più funzionare. Vi siete chiesti come mai, nel tempo, il fabbisogno di tasse cresce sempre? Chiedete a chi è più avanti nell’età lavorativa e vi potrà confermare che questa è la narrazione di sempre. Invece nella logica della creazione monetaria e del vincolo delle risorse, il vero fine della tassazione è evitare gli sproporzionati arricchimenti, offrire una via di redistribuzione, senza però penalizzare chi produce ricchezza, che è nostro patrimonio. A cui va data licenza di operare anche in senso sociale, che certo è nell’anima di ogni vincente.

 L’ulteriore evidenza della difficoltà a trovare quadratura è data dalla decisa rimodulazione delle misure di assistenza nel nostro Paese, che spingono le risorse, anche quelle più residuali in termini di specificità di competenze (dove competenza intendo anche semplicemente la capacità manuale, l’arte del fare le cose che oggi non è valorizzata, non ha mercato) a trovare autonomamente una forma di sopravvivenza. Se non che, la virata della burocratizzazione in funzione della pianificazione e del controllo, della sicurezza, del controllo dei flussi finanziari, del monitoraggio e successivo drenaggio di qualsiasi produzione economica anche residuale da tassare, ha prodotto una desertificazione delle opportunità di quadratura tra domanda e offerta di lavoro (intendo l’economia residuale, quella destrutturata, quelle operazioni economiche che non dovrebbero richiedere una fase burocratica, come avviene in altre economie).

Sostanzialmente il risultato finale è la costruzione di una sorta di gabbia da cui non si esce, restando solo la possibilità di mobilitazione verso altri territori, così come è stato in passato, così come avviene per le popolazioni che vengono nel nostro continente, così sarà per noi in futuro. Il fenomeno della mobilità alla ricerca di opportunità è un fenomeno da osservare con attenzione nella sua evoluzione perché gli Stati cominciano a ragionare in termini di “costo” e non solo di opportunità. Vedremo inoltre quale sarà l’impatto della modifica degli assetti produttivi “destrutturati” dai luoghi fisici di lavoro. Detto ciò, potete comprendere quanto bisogna spingersi lontano dalle impostazioni storiche per maturare convincimenti dopo aver riflettuto, esplorato e praticato, le possibili alternative di miglioramento di questo sistema non solo economico, ma di vita.

Riflettete su quest’ultimo aspetto, cioè la considerazione della persistenza dei problemi nel tempo, anche lungo, se si guarda indietro e all’evidente difficoltà o impossibilità di porvi rimedio, nei vincoli attuali. Non cadete nelle trappole della complicanza, certamente man mano che si entra più nel dettaglio delle analisi, l’aspetto tecnico assume la sua struttura complessa, ma i tratti generali sono chiari. E’ evidente che nell’economia dell’oggi prossimo e del domani, sarà fondamentale non solo creare condizioni perché parte delle risorse accumulate nel privato ritornino in circoli di investimento in cui si realizzi redistribuzione, ma probabilmente sarà necessario maturare la necessità di rinnovare le impostazioni storiche di economia e di finanza degli Stati. Detto in altri termini è inutile intestardirsi su posizioni difensive conservatrici, visto che molti dei processi storici non sono più sostenibili, non sono semplicemente più in equilibrio.

Il passaggio da una globalizzazione senza controlli, con la sua nascita, sviluppo e crisi, ad una nuova definizione di globalizzazione economica in senso “sociale”, sconta le difficoltà di un mondo conflittuale, tant’è che ancor oggi il fenomeno inflattivo seppur retrocesso, resta comunque sotto la brace. Nell’attesa che si comprenda o meglio si maturi la necessità di abbandonare i conflitti per tornare sulla via della progettualità per il miglioramento delle condizioni di benessere diffuso e di sostenibilità delle stesse nel tempo, alcuni tratti del nostro vivere, sotto il profilo economico, patrimoniale e finanziario, sono già oggi definiti, marcati. In evoluzione, certamente, ma ne sono riconoscibili le caratteristiche, soprattutto dal lato dei problemi. La rimodulazione dei settori e delle filiere, sia di produzione, quindi di approvvigionamento, che di distribuzione, determinano modifiche e anche stravolgimenti nei territori, a cui conseguono azioni di contenimento, di soluzione, non facilmente implementabili, laddove possibili. Dal momento che molte delle decisioni economiche sono di tipo strategico, va da sé che l’implementazione di azioni in senso inverso, di contenimento, di rinnovo e di sviluppo, hanno necessità di tempi per la loro implementazione. Resta ferma la necessità di analisi e poi di pianificazione che richiede condivisione nel mentre genera conflittualità, anche nella dinamica naturale di dialogo tra le parti. Successivamente, la fase di implementazione dei progetti che, per gli investimenti come quelli del piano pluriennale europeo, richiedono comunque tempo. Contestualmente la forza delle dinamiche che in passato hanno portato alla concentrazione della ricchezza, oggi generano movimenti opposti altrettanto forti per riacquisire anche con la lotta (intesa in senso di contraddittorio), migliori condizioni di esistenza. La modifica degli assetti esterni alle aziende nella creazione di valore si integra con le modifiche di produzione delle stesse, nello svolgimento delle attività all’interno delle funzioni e dei processi, sia da parte delle risorse interne che esterne. E quindi lo smartworking è cosa oramai acquisita, variabile nell’applicazione e nell’intensità, ma è fenomeno affermato. Tutti questi temi evidenziano la complessità del momento e, per certi versi, giustificano i movimenti in atto verso nuovi assetti di vita.

A questo punto nello sviluppare il tema di fondo, cioè come raccordare spazio e cultura nelle dimensioni locali e globali, torno sul tema del mondo vecchio e nuovo, non me ne vogliate. È, in sostanza, la chiave se non del problema, quantomeno della soluzione. Osservate anche qui, la trasformazione dell’economia, i suoi tratti principali. Nel mondo occidentale le aziende più grandi sono tutte tecnologiche, il web ha trasformato il modo di vendere, distribuire, di produrre e distruggere al tempo stesso ricchezza. È inevitabile, nel momento in cui la logistica si adatta alle potenzialità della distribuzione digitale, molte produzioni, molti prodotti restano tagliati fuori, così come si modificano i canali di distribuzione. In generale quella forza dell’investimento fisico che ha la caratteristica di essere più residente, quel capitale legato non solo ai prodotti primari, ma ad una manifattura magari più lenta e meno performante, e di conseguenza molta parte della distribuzione e vendita, viene meno. Cosa fare quando ciò determina la chiusura di attività produttive? Tutta la popolazione attiva in una fascia ampia di età, soprattutto quella di mezzo o anche più matura, come farà l’attraversamento? Ecco perché il pensiero va alla misura di reddito Universale Europeo (sul tema del reddito di cittadinanza vedi -Qualcosa di sinistro- Cosa Succede in Città, Volume II), che, oggi più che mai torna attuale, a mio avviso. Paradossalmente, come strumento non tanto di assistenza transitoria ma strutturale, potrebbe risolvere contestualmente più problemi in campo, deflazionando tensioni, mitigando disequilibri, pacificando anime e conflitti. Raccorda il tempo tra presente e futuro. Non dimentichiamo che l’esistenza di una misura stabile di questo tipo non significa abbandonare la ricerca della piena occupazione, dell’ottimizzazione del mercato, della sua capacità di tendere alla piena occupazione. È esattamente il contrario, paradossalmente consentirebbe ai pianificatori e gestori pubblici, nonché ai privati, di acquisire tempo per le politiche di gestione dei territori[2].

Ditemi, come si può comporre una qualunque crisi aziendale, che produce precari, con un intervento di sostituzione, di continuità, in tempi ragionevoli? Può accadere in alcune situazioni, ma la fase di rinnovo attuale ha bisogno di tempo per costruire nuove condizioni di attrattività. Quindi l’alternativa è l’investimento diretto in attività supportate/surrogate in ambito statale, non ha importanza adesso il modello, oppure il reddito di esistenza legato magari ad una individuale, specifica e non imposta progettualità. O una forma ibrida tra esistenza ed erogazione di servizi inseriti in un ambito di progettualità di settore (non solo terzo) e/o di servizio. Lo sviluppo futuro degli ambiti lavorativi, educativi, sanitari, di servizio, di controllo, di assistenza, passerà attraverso la digitalizzazione. Mi dite Voi come si può fare se in ogni nucleo non c’è un collegamento alla rete[3]? Il paradosso del nostro modo di vivere è il risultato in sostanza di ciò che non abbiamo pianificato. Passiamo cioè dalla possibilità di gestire e pianificare in termini monetari il fabbisogno a copertura dei disavanzi di sistema e delle inefficienze del mercato, alla raccolta della  più piccola quantità di acqua per innaffiare un terreno arso, con asini e buoi con la lingua di fuori. La mia non è un’esagerazione, è solo ribadire ciò che da anni molti raccontano sia in cronaca che negli approfondimenti.  

Restare agganciati alle idee del passato e direi alle ideologie in cui il capitale (non tutto) non concepisce l’esistenza di una debolezza che alcuni chiamano fragilità, significa non comprendere la portata del disagio. Per una moltitudine fragilità è da leggere a volte in impossibilità (a raccordarsi con il sistema competitivo), esprimendo invece un’alternativa concezione di vita, un proprio modo di essere. L’impossibilità si intende evidentemente non di chi è fragile, ma del sistema (lo possiamo chiamare anche mercato) che non è in grado mai di creare condizioni sufficientemente dignitose per tutti. In tal senso, quello che abbiamo osservato nella fase globale e ancor più post globale è proprio questo, l’impossibilità del mercato di realizzare la piena occupazione sia nei cicli espansivi che in quelli di contrazione delle fasi storiche stabili, figuriamoci quando ci si trova in una fase strategica di profonda transizione. La fase lunga di accumulazione della ricchezza, il monte debiti complessivo, le distorsioni nella distribuzione della ricchezza, l’obsolescenza delle condizioni strutturali in molti comparti, riportano al centro della riflessione il ruolo degli Stati, la loro capacità, in primi di pensiero, di essere attori del cambiamento, normativamente, nell’esserci quando serve e nello scomparire o non impedire al cavallo di galoppare quando ne ha bisogno. E’ una questione di mentalità oltre che di modello.

A questo punto torniamo al tema cruciale: cultura, che vuol dire vissuto, vissuto che vuol dire economia. Non si può prescindere dall’economia quando si parla di vissuto, negli spazi e nei territori, il vissuto forma l’economia degli spazi. Quanto dev’essere questa economia? Anche in questo caso, torno al concetto sviluppato già in passato, la sovrapposizione delle dimensioni di tempo e di spazio all’interno dei luoghi urbani, dove convivono più realtà sociali. Le società, gli agglomerati, le dispersioni nelle periferie e nei luoghi a minor intensità abitativa, opzioni di scelta che dipendono necessariamente dalla possibilità innanzitutto di sopravvivenza, poi di esistenza, poi di ottimizzazione dei percorsi personali in funzione delle scelte, degli obiettivi. Da dove partire, se non dall’analisi di cosa offre un’area, direi ciascun territorio, nella possibilità che ci si possa vivere? Delineate le potenzialità e le possibilità, a quel punto in ciascuna area si svilupperà o meno un vissuto e, quindi, una cultura.

Ecco perché oggi più che mai siamo nella fase di progettazione del futuro in cui inevitabilmente, a prescindere dalla formazione culturale e storica di ciascuno di noi, bisognerà fare i conti con la necessità di definire il perimetro di azione degli Stati, con il loro bilancio, nel definire i modelli di vita in cui sono comprese le tutele dei diritti, il diritto di esistenza concreto, i modelli di sviluppo centrali e territoriali, la qualità e quantità di servizi (cosa ci possiamo permettere).

In sostanza il futuro concerne l’evoluzione della ricerca di bilanciamento tra pubblico e privato in funzione dell’obiettivo di far prevalere un modello evolutivo della specie in cui ci sia benessere diffuso, sistemando le questioni di base del vivere sin dalla nascita, oppure proseguire verso le linee che la dinamica competitiva nelle diverse aree del mondo ha già delineato.

Il ruolo della polis in tal senso sarà determinante e naturalmente la differenza sarà essenzialmente nel vivere pacificati o in conflitto.

Prosegue nel prossimo paragrafo, nei giusti tempi richiesti dalla riflessione lenta e dalla necessità pian piano, di aggiungere qualche informazione in più, ad esempio sui progetti già in essere dei prototipi delle città del futuro, del lavoro che i pianificatori, professionisti inclusi, stanno già implementando.

E’ importante uscire dalla narrazione del quotidiano, i temi di fondo sono veramente decisi, penso che a differenza del passato siamo arrivati al punto in cui non possiamo più dire è stato sempre così, molte cose rischiano veramente di non esserlo più, e non solo dal lato materiale.

La grande onda di rinnovamento è già in essere.

 

[1] Dal prospetto dei dati della popolazione residente si evince che gli indipendenti sono circa 5 milioni, una quota residuale rispetto all’universo dei dipendenti. Le notizie, attuali, sul non allineamento fiscale di alcune categorie di indipendenti, che scaturiscono dall’applicazione di metodologie presuntive di reddito, rendono l’automatismo della narrazione che tutti i mali di bilancio scaturiscono da questa infedeltà; Vi basta leggere con un minimo di riflessione i dati delle entrate, per comprendere che il problema non può essere quello. Il tema è però più articolato e richiama altre problematiche e considerazioni, come quella sulle rendite di posizione, sulla qualità delle voci di spesa pubblica attualizzata ai temi odierni e al fine corsa di molte impostazioni. Per questo motivo, prossimamente ospiterò un contributo di uno studioso del tema, il prof. Sugo, anche lui magnifico.

[2] In apertura dell’articolo “Qualcosa di sinistro”, ho inserito un disclaimer su quella che è non solo la mia posizione sul reddito di cittadinanza, ma l’ottica in cui osservo la misura, fuori dall’appartenenza politica ma all’interno del mio contesto di pensiero e, soprattutto, di esperienza. Una misura che reputo non di assistenza, ma di esistenza, è tutt’altra cosa. È il mio punto di vista, a cui voglio aggiungere alcune ulteriori riflessioni. Se fosse possibile, la misura la penserei Europea (europea, poiché centrale è la funzione monetaria, in sostanza significa attivare il processo di creazione di cui sopra, vedi) e non dovrebbe essere di emanazione politica, concetto assurdo certo, ma si configurerebbe come misura di civiltà che disinnescherebbe il detonatore dell’enorme “ordigno” insito nella misura stessa, cioè l’avversione delle parti politiche che vedono nella misura uno strumento di tornaconto elettorale per le forze che lo sostengono. Ribadisco quanto affermato in passato, l’introduzione in Italia di una misura di assistenza è stato un passo in avanti notevole, appunto di civiltà. Migliorabile, come tutte le cose nuove, ma assolutamente condivisibile. Ci tornerò sopra perché la questione non è solo puramente di carattere economico, anzi, direi che è punto di partenza per una riflessione molto più ampia sull’ organizzazione sociale, e sulla componente culturale e ideologica che la caratterizza.  Ripartendo dal tornaconto elettorale per le forze che lo sostengono, intesa come misura di civiltà nelle diverse forme applicative, la sua introduzione porterebbe benefici indiretti più alla parte culturalmente avversa allo strumento che a quella che ne usufruirebbe direttamente. È proprio il mercato che ne beneficerebbe sia direttamente attraverso la spesa che poi genera entrate, che indirettamente, per chi è già presente sul mercato del lavoro che potrebbe beneficiare della spinta verso l’alto delle remunerazioni, come effetto naturale di differenziazione. L’effetto conseguente sarebbe quello di eliminare tutte le strutture, le entità economiche, che si reggono sulla precarietà. L’altra eccezione sugli effetti diseducativi della misura nel senso di depotenziare la resilienza al lavoro a mio avviso non si configura come problema, ma anzi favorirebbe la trasformazione delle società, quantomeno in senso di integrazione delle sue caratteristiche, in cui la parte più umanistica, più sociale, meno competitiva né senso del solo profitto, prenderebbe il suo giusto peso. Le aziende più performanti, equilibrate, redditive, non lo fanno già da ora? E allora perché una così forte resistenza culturale ad una delle possibili misure di ridefinizione delle società in senso di sostenibilità, che prevede la riscoperta di umanità e, soprattutto, l’abbandono dei conflitti?

[3] Non è solo per l’aspetto sanitario, in realtà possibilità di vita, decentramento dai luoghi urbani, sostenibilità ambientale, qualità della vita, dipendono molto dalle vie di collegamento, sia telematiche che fisiche. Per questo motivo amo l’idea della new town o dei villaggi delocalizzati di nuova concezione, su cui insistono unità produttive o le stesse sono facilmente raggiungibili. Questi luoghi, concepiti secondo una pianificazione in cui i luoghi di servizio e quelli di cultura sono parte integrante dell’essere, possono garantire condizioni di vita qualitativamente elevata a più basso costo sfruttando le economie anche di progettazione.

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Nobody

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Cosa Succede in Città

Volume III

 

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"Cultura e spazio" - parte II, paragrafo 1 dati macro

a cura di

Nobody, homeless digitale, thinker

5-6-2024

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Per chi si occupa di Economia, la finanza dei mercati, casa dei flussi monetari e non solo di trading, è un’area di continuo monitoraggio, la cultura finanziaria è indispensabile per leggere l’evoluzione dei fenomeni non solo economici ma direi anche sociali, nell’attualità e nella prospettiva. I fenomeni economici nella società, proverò a delinearne alcuni sintetici tratti. Tutto il nostro mondo economico è in fermento, lo sono i mercati finanziari, lo sono gli strumenti, con lo sviluppo e l’utilizzo intensivo dei sistemi automatici e dell’intelligenza artificiale. Eravamo in un contesto di tassi a zero, in cui i carry trades erano un lontano ricordo solo di chi già operava all’interno dei mercati, ci ritroviamo oggi in un contesto di ripristino dei tassi di interesse nell’ambito di una fase inflattiva seppur in retrocessione rispetto ai picchi dell’anno scorso, con le coppie valutarie che esprimono differenziali di rendimento che ne influenzano l’andamento. Un contesto quindi di assoluta novità in cui è tornato a giocare uno dei mover principali del mercato valutario, il tasso di interesse, ma non c’è solo questo. La fine della fase di iniezione di liquidità da parte delle banche centrali convive con il passaggio alla nuova economia digitale in cui l’Intelligenza Artificiale, e i nuovi super processori, consentiranno innovazioni di processo, nuovi prodotti di esperienza e, contestualmente, un impatto non secondario nella modifica dei business tradizionali. Sotto quest’ultimo aspetto, sarà importante vedere cosa succederà nell’economia, come interagiranno tra loro le trasformazioni in atto, quale impatto avrà l’evoluzione della tecnologia, la transizione ecologica, come si modificheranno i sistemi di vita nella maggior discontinuità lavorativa, come si gestiranno le conseguenze, in termini di pianificazione, dei buchi che si creeranno per il passaggio tra la nuova e la vecchia “economia”.

 Problemi non secondari se visti nell’ottica del processo di invecchiamento delle società, nella rigidità delle regole economiche che trovano rigidità nei paletti imposti dalla logica del debito con i suoi limiti e vincoli. Non è difficile osservare come per ogni settore in cui viene individuata una problematica o c’è necessità di trasformazione, la misura è la necessità di un intervento di finanziamento, sia di funzionamento che di investimento. In ogni settore: sanità, istruzione, giustizia, difesa, sostegno al disagio, sviluppo infrastrutturale, transizione energetica, il tutto per transitare da un punto di partenza, quello odierno, a un punto di arrivo che oggi non è stato ancora definito o lo è stato parzialmente.

Da questo punto di vista, apro una breve parentesi sul concetto di immutabilità del sistema concettuale storico di finanza pubblica e di bilancio degli Stati, dei vincoli delle politiche economiche, della difficoltà che questo sistema sconta in relazione alla presa di atto delle problematiche e dei tratti emersi nell’evoluzione storica dei fenomeni economici.

La fase globale senza regole ha prodotto un’esplosione di operatività, la ricchezza, per quanto diffusa, si è concentrata fino a quando il sistema, a più riprese, è crollato. Abbiamo fatto in 30 anni quello che in una gestione più consapevole e controllata potevamo fare con molta più calma (più del doppio?). Oggi chiaramente i sistemi economici sono in difficoltà, l’era Covid ha appesantito molto i bilanci statali soprattutto perché siamo in una gigantesca fase transitoria in cui la logica di bilancio continentale pone dei vincoli molto stretti.

Riflettiamo un attimo, prima del Covid le manovre di bilancio erano circa 20/30 miliardi l’anno. In fase Covid la variazione del debito è stata circa di 454 miliardi a fine 2023 (debito al 31 dicembre 2019 2.409, al 31 dicembre 2022 2.757, al 2023 siamo 2.863). In qualsiasi caso, fuori dai vincoli, il sistema ha trovato le risorse. Cosa è servito? La convergenza sull’obiettivo, sconfiggere la pandemia e sostenere le economie, le famiglie. Dal punto di vista delle risorse, ad esempio il personale medico, è servito uno sforzo fuori dal normale per gestire l’emergenza, un impegno straordinario da parte delle risorse umane presenti. Guardiamo la situazione attuale; le liste di attesa per gli interventi specialistici e per le analisi a volte sono di mesi se non di anni. Mancano non solo le risorse finanziarie per la stabilizzazione dei precari e la remunerazione degli operatori in fase di inserimento, mancano proprio le risorse umane. Quindi il problema dell’aspetto monetario, finanziario, è un problema e no. Infatti, a prescindere dalle scelte politiche, il problema di fondo non sono le risorse finanziarie (si potrebbero trovare in uno dei tanti programmi vattelapesca o come si chiamano) sono le risorse umane. Mancano risorse nel sistema. Ecco, quindi, capite la differenza? Tutte le scelte economiche, di politica economica e monetaria, passano attraverso la comprensione prioritaria delle risorse che ci sono nel sistema. Risorse di tutti i tipi, materiali ed umane. È lì il vincolo, fino a quando ci sono risorse e queste sono gestibili e allocabili, se non si creano disequilibri tra domanda e offerta, e non si generano spinte inflattive, il problema della provenienza monetaria è assolutamente secondario. Il vincolo è nelle risorse. Se infatti decidessimo, oggi, per legge, di imporre una tempistica di massimo due giorni per gli esami specialistici, pur trovando tutte le risorse monetarie di questo mondo, avremmo comunque un vincolo produttivo nella scarsità delle stesse. Non solo, guardiamo l’aspetto monetario, finanziario. In mancanza di autonomia, le risorse monetarie partirebbero dal livello centrale per confluire nel sistema economico a disposizione per le voci di spesa. Intanto bisogna spendere bene, c’è quindi certamente un problema di efficienza della spesa, di qualità. Definire gli obiettivi, ad esempio, gli standard di un servizio. I flussi monetari una volta immessi nel sistema entrano nel circuito economico attraverso i consumi, poi magari una quota verrà destinata al risparmio/investimento nelle diverse forme. La quota di debito pubblico contratta potrebbe essere collocata nel risparmio familiare interno nazionale, gli interessi sugli investimenti sono quota di ricchezza trasferita che corrisponde a una maggiore capacità di spesa, di consumo o di investimento. Quando entrano risorse nel sistema, l’economia ne beneficia, il debito (e quindi la quantità di moneta trasferita) è collocato stabilmente, si rinnova riducendo i rischi di rimborso dal momento che è ricchezza creata di numerario in grado di essere riassorbita in qualsiasi momento. I vincoli sono nella qualità della spesa, nelle risorse, nella capacità di fissare obiettivi compatibili con la capacità del sistema di produrre quel livello di ricchezza, di benessere. E, naturalmente, gestire le politiche in modo da tenere sotto controllo l’inflazione. Le risorse certamente rappresentano un limite[1].

Per questo motivo la mia non è una critica alla dinamica competitiva globale a prescindere, anzi, la critica è nella mancanza di regole. Infatti l’espansione economica extraterritoriale e la mobilità del capitale e degli investimenti consentono di massimizzare le risorse dei territori e collocare le eccedenze. Quindi se tutto il sistema globale si espande cercando l’ottimizzazione di ciascuna area, il benessere in sostanza si condivide senza creare profonde depressioni, eliminando gli sfruttamenti e rimuovendo le condizioni regressive che impediscono la crescita dei sistemi economici territoriali.  In tal senso tutto ciò favorirebbe il flusso di uscita delle popolazioni dai luoghi di origine verso quelli dove trovare una migliore condizione di vita, potendo pianificarla in loco. Il tutto, a patto di fare analisi e pianificazione delle risorse e delle potenzialità dei territori, per poi di dotarli delle risorse necessarie per conservare i fattori critici di sopravvivenza. Parimenti, come meglio dirò dopo, anche nell’area nazionale l’ottimizzazione di ciascuna area dovrebbe ridurre la necessità di muoversi, di abbandonare i territori, anche quelli urbani.

Continuiamo il viaggio nel ragionamento. Se è chiaro che il vincolo è nelle risorse, va da sé che il vincolo esiste anche nella dimensione produttiva. Se è vero che la disponibilità monetaria o finanziaria trova l’ostacolo nel vincolo delle risorse, che sono limitate (scarse per definizione), specularmente le risorse esistenti hanno un limite produttivo anche in termini di capacità di gettito. Se il sistema ha il suo cardine, e funziona, grazie alla raccolta fiscale, a fronte di debiti crescenti esisterà un punto in cui il drenaggio delle risorse nel sistema a mezzo tassazione non sarà più sufficiente neanche per pagare le rate di rimborso. Il sistema di rinnovo del debito è consolidato, cioè a scadenza i debiti statali vengono in sostanza rinnovati (rimborsati anche attraverso nuova finanza). Ma se i debiti hanno bisogno di essere continuamente rinnovati significa che il debito è perenne e, tendenzialmente, sempre crescente. Se allora il debito è consolidato, perché chiamarlo debito e non capitale, ma soprattutto perché non gestirlo per quello che è, capitale, trattandolo invece come debito? Drenare le risorse a sistema attraverso l’impoverimento generale del comparto privato ha impatto anche sulla contrazione del volume di ricchezza che gira a sistema, ricchezza intesa in termini di possesso di strumenti di pagamento per acquisire le risorse. Quando ci si trova in una situazione in cui il monte debito è elevato e c’è contestuale riduzione del volume di ricchezza prodotta, la finanza pubblica con vincoli rigidi rischia di schiacciare e soffocare l’economia e il vissuto. Lo stiamo vedendo già da adesso, nella contemporaneità, dove la contestualità, la concomitanza di questi problemi, produce effetti sul livello dei servizi, delle prestazioni, anche assistenziali. Con il passare degli anni, delle decadi, il fabbisogno monetario centrale cresce sempre di più e se si rimane cristallizzati sullo stesso modo di ragionare, il conto economico soffrirà sempre di più. Sempre più debiti, sempre più necessità di pagare interessi passivi, sempre più il peso delle imposte che gravano su un numero sostanzialmente stabile di soggetti. Guardiamo un attimo la tabella con la rielaborazione dei dati del cartogramma aggiornato al 3 trimestre 2023, sintesi dei dati sulla popolazione residente.

I dati mi servono solo per riflettere su alcuni punti, temi non certo sconosciuti.

Quindi:

  • la popolazione generale non cresce, quindi il fenomeno del decremento delle nascite, ma soprattutto, se vedete bene,

  • il numero di occupati è costante; certo la pandemia è una sorta di tempo sospeso, però siamo sempre allo stesso valore; la produttività è una leva, più produttività, maggior valore prodotto maggior imponibile a parità di forza lavoro. Non solo produttività ma anche permutazione, cioè produzioni a maggior margine, dovrebbero portare più imponibile;

  • sono fuori dal mercato del lavoro più di 30 milioni di cittadini, più del 50%.

Vedremo, nel paragrafo successivo, che a fronte di una popolazione costante se non in leggera riduzione, di un numero di soggetti fuori dal mercato del lavoro, cioè inattivi sia in età lavorativa che non (ed è la quota più alta), i dati di debito e tassazione, sono sempre crescenti.

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[nota 1] I concetti non sono certamente nuovi, per meglio comprendere nel dettaglio, in modo completo e sistematico, il riferimento è Stephanie Kelton, “Il mito del deficit”, completo nel contenuto e nei riferimenti alla teoria monetarista, ai principi che ne sono alla base, ai suoi teorici ed economisti di riferimento.

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Nobody

thinker e homeless digitale

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Volume III

 

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"Cultura e spazio" - prologo

a cura di

Nobody, homeless digitale, thinker

13-2-2024

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I fenomeni non meteorologici ma quelli sociali, politici, economici, nella fisiologica metamorfosi operata dal tempo, si prestano alla riflessione man mano che i cambiamenti, o non cambiamenti, cioè l’immobilismo del pensiero, danno sensazione di novità, di una trasformazione in atto a volte anche compiuta. Certamente siamo anche noi nello scorrere del tempo che ci porta maturazione spesso inconsapevole, non percepita, poiché il dato, inteso come input dal mondo esterno, matura nella riflessione della mente e dell’anima. La mia attenzione è sui concetti di cultura e di territorio, quest’ultimo inteso in termini di spazio. Il concetto di spazio mi è molto caro, ogni dimensione di spazio vissuto ha una sua fisicità, una sua storicità, un’evoluzione. Ha in sé il concetto di tempo, lo assorbe e lo trasporta quando lo spazio fisico, riferito ad un territorio, varia e si modifica in relazione allo spostamento dell’umano. Si diceva un tempo, “di chi sei figlio?”. Ecco, di chi siamo figli, noi? Il nostro tempo presenta tratti marcatamente polarizzati del pensiero ideologico, come fosse un terreno con diverse buche in cui, inevitabilmente, dovresti cadere. Buche, cioè spazio chiuso, recinto, a prescindere dalle porte più o meno aperte ad accogliere e meno a far uscire restando buoni amici. Così come l’insofferenza verso il viaggiare fuori dalle buche produce avversione, quell’atteggiamento di avversione che sembra di vivere in un film dell’orrore in cui da quelle buche escono mani intente a catturare i viaggiatori in transito negli spazi del territorio contemporaneo. Viaggiatori che hanno un proprio pensiero o addirittura sono senza pensieri, forse con qualche grande interrogativo nella mente. È una forma di difesa, molto forte, che testimonia non l’inesistenza della riflessione distaccata, necessaria per meditare su sé stessi, quanto piuttosto la maturazione della consapevolezza della difficoltà del cambiamento o della comprensione dei limiti del pensiero nell’evolversi nel tempo, nella sua sedimentazione. Voglio dire che i sistemi organizzativi sociali, le ideologie politiche e no, si scontrano con la realtà dell’evoluzione del vissuto, soprattutto nel pensiero e nell’anima, pur considerando, per quest’ultima, la materialità del presente che è non solo secolare, ma addirittura post secolare. Quando l’osservatore più attento alla dimensione spirituale fa presente il suo disagio ad interloquire con un mondo post-secolarizzato (cioè materiale, senza spiritualità, senza Dio, a cui si aggiunge il palo in fronte dei  limiti dell’umano davanti ai   problemi de mondo) trascura le trasformazioni già in viaggio da tempo dove, dietro la presunta materialità e l’esteriorità,  si cela in realtà un mondo interno che, generazione per generazione, metabolizza il nuovo che ha in sé anche la dimenticanza del patrimonio passato. Quando non c’è trasferimento e la cultura si frammenta perché cambiano gli stili di vita, le condizioni di esistenza, in primis di tipo economico. Bene, vado al dunque, come conciliamo il concetto di cultura del territorio a cui possiamo sentire di appartenere, con quella di essere parte di un qualcosa di più grande di cui fruire? Ecco, anche qui, i concetti di spazio nel territorio e nel pensiero, si sovrappongono. Uno spazio locale, uno spazio più allargato, un pensiero locale, un pensiero più ampio, questo è è il viaggio di riflessione che voglio fare. È la cultura, naturalmente, la protagonista, quella che per qualcuno non deve cambiare, quella che per qualcuno, come me, può e deve cambiare almeno nell’integrazione dei pensieri, degli stili di vita, nelle modalità relazionali. Un cambiamento forse anche lento ma che non si fermerà, come in tutte le epoche storiche, molto di quello che oggi è dibattuto, sarà normalità. Da dove partire per affrontare un tema di una portata talmente ampia e in cui sono impegnati tra l’altro, oltre ai gruppi di potere nelle varie forme, tanti intellettuali, gestori pubblici e privati, professionisti, élite nel senso più ampio? Come portare una riflessione non banale che si aggiunge all’obiettivo di scrivere per sviscerare e sistematizzare? E con quale contributo, se non magari provare ad immaginare scenari, sviluppare idee, accettare visioni, per delineare quei solchi di riflessione su cui incanalare, man mano che l’esperienza e la conoscenza evolvono, i ragionamenti e fissare alcuni punti fermi? Siamo in una fase storica in cui sono in gioco le sorti non genericamente dell’umanità, ma quella di ogni singolo cittadino, ciascuno in fase di valutazione se non del proprio destino quantomeno della prospettiva materiale, in evoluzione. Patrimonio, o possibilità di accesso, reddito o no, pensione o no, sostentamento e, direi in generale, sostenibilità, qualità di vita, inclusione o esclusione, possibilità e impossibilità. Sempre più la fase post-pandemica ha prodotto una frammentazione, una riduzione, anche delle misure di assistenza, in generale delle opportunità di quadratura. Il sistema si stringe intorno alla coibentazione e al rinsaldamento del certo, di ciò che viaggia in sicurezza, del competitivo, mentre resta nel transito del sarà, tutto ciò che soffre. Come si vivrà, dove, quali saranno i diritti riconosciuti, quali le possibilità, come si formerà il consenso sui grandi temi a prescindere dall’esistenza dei democratici meccanismi esistenti, alla ricerca della convergenza più ampia soprattutto sui grandi temi? Ci sarà desiderio di condivisione ampia o invece i gruppi prevalenti imporranno il loro sistema culturale? Si comprende quindi la delicatezza del problema, poiché nelle democrazie, in molti stati, c’è un disinteresse alla partecipazione politica, in primis nel voto. E quindi le minoranze, seppur riaggregate in aree di maggioranza, possono orientare le scelte. I temi sono così tanto divisivi e trasversali rispetto alle tradizionali collocazioni di pensiero e di appartenenza, che si porrà il problema della modalità di formazione delle decisioni. Non solo, di fronte a un così tanto grande coacervo di problemi, in che modo conciliare o meglio definire una competenza in grado di svolgere o assorbire una o più decisioni di polis? Vedremo concretamente come si evolverà la cultura, come in concreto troverà definizione il diritto di esistenza, l’essere cittadini tra diritti e doveri e, non ultimo, quali effettive possibilità di esercitare un diritto di recesso, già ampiamente praticato da molte menti e molti giovani. Anche il concetto di migrazione si evolve, quasi seguendo un filo in cui in ogni area geografica, evolutiva, dove incide un concetto specifico di spazio, la parte che non trova condizioni di quadratura e di esistenza anche in funzione della realizzazione di aspirazioni, potrà scegliere il viaggio fuori dai territori di appartenenza, alla ricerca di una vita migliore. Naturalmente le forze politiche e culturali, tra cui quelle economiche nelle forme di rappresentanza e non, sono in campo per orientare scelte e visioni. Porterò con me la riflessione su ciò che vedo e maturo nella dinamica del pensiero in evoluzione, attento nell’osservare il mondo delle azioni e dei pensieri non disuniti, ma nell’organico legame che unisce la superficialità, l’evidenza delle azioni e la profondità, il nascosto, dei pensieri.

Il prossimo passo, un salto nel settore economico, qualche dato e poi, una riflessione sul sangue dell’economia, il liquido monetario.

 

Nobody

thinker e homeless digitale

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