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Sul concetto di marginalità, di contribuire, di esistere, in tema di diritti

Aggiornamento: 21 apr 2023










Batte più forte batte fino alla morte batte dentro” che ci vuoi fare, quel tarlino lì gira da un pezzo.

In realtà sono quelle immagini che restano impresse in determinati momenti e diventano mosto che pian piano matura e diventa pensiero, neanche poi tanto finito, ma grezzo.

Com’è, necessariamente, grezza, questa riflessione. Un’affermazione emersa durante la pandemia avanzata e persistente, che fa volare tappi di bollicine, a volte con un gusto molto amaro.

Ed infatti il pensiero che correva ad un certo punto, era quello che i non vaccinati (in quel caso) non dovessero aver diritto alle cure. Da cui il concetto esteso, che l’imperfetto umano individuato in modo univoco da un codice fiscale, se non ha tutte le spunte a posto non ha più diritti.


E allora a questo punto, secondo voi, non sarebbe il caso di cominciare ad approcciare al problema non solo attraverso l’incrocio, mefistotelico ed improbo, dei vari codici e codicilli, e cominciare a ragionare con un po' di spirito pratico, nella fase attuale che, come detto, è diventata quella della necessità?

E il concetto di marginalità, inteso non in senso di esclusione, ma nella sua accezione più economica di margine che contribuisce a, può non essere rivisitato, applicato, esteso, alla comprensione di ciò che in realtà è valore o meglio ciò che attribuisce il diritto di esistenza a pieno titolo?

E’ evidente che si entra in un ambito molto, come dire, molto, come dire, ahia, come dire, delicato.

Perché alla base c’è una valutazione non solo quantitativa, ma soprattutto qualitativa, come ad esempio per la spesa, non di casa, ma quella pubblica, ad esempio.

L’acqua bolle, a dopo.

Facciamo un esempio, per capirci dove ci addentriamo. Dal momento che l’affermazione dei principi e l’affermazione della predominanza almeno nel mondo occidentale, degli aspetti economici, che, secondo alcuni pulpiti molto elevati, muoverebbe tutti i ragionamenti, viene palleggiata destro e sinistro a seconda di come conviene, bisognerà innanzitutto convergere sul postulato che in ogni atto economico, c’è una motivazione, l’affermazione di un diritto e il rispetto di un dovere. Le questioni dovrebbero essere intese nella loro interezza, per far scaturire quel buon senso necessario quando i codici non rispondono a principi, si basano sull’elencazione di casistiche, mentre la realtà concreta, soprattutto quella odierna, si muove velocemente rendendo i codici molto spesso carta straccia, ovviamente in alcuni casi da rinnovare con stesure autoctone per colmare i vuoti non riempiti dai pisoli confliggenti di turno.

E allora l’esempio è questo e lo prendiamo come spunto di riflessione proprio perché la negazione di un diritto alla cura è originato da una considerazione di costo economico: in un’epoca di forte discontinuità lavorativa, se un soggetto nella sua vita lavorativa compiuta ha versato, facciamo un esempio, 1000 e si trova a non versare più imposte e magari non ha tutta la check list spuntata, è peggio di uno che ha tutte le spunte, ma nella sua vita ha contribuito per 10? Come la mettiamo? E se nel periodo pandemico l’indebitamento è cresciuto di (dico ora, dopo vedo) 300 miliardi, di cui molti ristori, molte richieste di aiuto, molte compensazioni, il concetto di dare e di ricevere si è di molto aggiornato. Dico di più, nella contingenza, anche le entrate pubbliche crollano a picco, va sé che anche la parte a deficit è finanziata con debito, ma qual è quella a debito e quella pagata con le entrate? Non chiaramente in senso bilancistico o di finanza pubblica, ma proprio in termini di priorità della spesa.

Ritornando a prima, 1000 o 10, non sarebbe il caso di cominciare a valutare la vita del soggetto in termini più ampi? In pratica, quei 1.000, di uno che ad esempio, non ha mai preso contributi pubblici, non è mai andato all’ospedale, non ha usufruito di agevolazioni, magari ha implementato un lavoro o un progetto, o lavora presso, senza mai usufruire di servizi e ha quel 1000, ecco, quel 1000, vale o no? E magari è uno di quelli che dichiara un imponibile non da redditi di impresa, con un’organizzazione che lavora per te, ma uno dei tanti individuali che si guadagnano onestamente la pagnotta con valore aggiunto e rientrano in quell’esigua percentuale di soggetti, su 60 milioni, che dichiarano oltre una certa soglia, portano per un periodo più o meno lungo la legna alla collettività e che succede, in un periodo di discontinuità, se non ha paracadute, diventa soggetto residuale anche in termini di diritti?

Evito per oggi, di entrare in un aspetto ancora più specifico del recente passato e presente, perché in un Paese in cui è così tanto decantato il tratto culturale, le connotazioni squid lasciano veramente un segno profondo, soprattutto perché traggono se non origine, comunque accettazione da chi quei tratti culturali li palleggia e non dovrebbe certo considerarli come pratiche degne di un Paese democratico, neanche per un paventato stato di necessità o emergenza. Né vale un postulato sempre verde nel nostro Paese, che siccome non capita a me, non me ne frega. Ci tornerò su questo, magari fra molto tempo, ma sicuramente in tempo utile ad una almeno parziale analisi del fenomeno. Non si utilizza il bisogno per fare adepti in nome di una prevalenza purista di pensiero e di azione o, come detto, molto meglio, in molti casi, di non azione, cioè del nulla.

Naturalmente questo appena detto è ferraglia, altro che grezza, però, cominciamo pian piano a limare, e poi il paiolo………

Marginalità, questa marginalità ha un termine di scadenza? Oppure concorre a definire un conto economico di marginalità, in cui quel versato diventa un interesse rispetto al debito di esistenza che matura, vita natural durante, dando il diritto alla riscossione dell’interesse da parte pubblica o meglio, dall’accezione dell’utilità pubblica che quel credito lo deterrebbe per semplice appartenenza di parte?

Inoltre, voi come la pensate in merito ai rigori della vita, qualcuno purtroppo sbagliato? Meglio chi il suo rigore lo tira e magari lo sbaglia, rispetto a chi nella sua vita ha evitato o non è in grado di procurarselo e tirarlo e inveisce con chi quel rigore almeno ha avuto il coraggio di tirarlo?

Cosa è più utile per il bene comune, chi non sbaglia mai perché mai fa nulla, rispetto a chi tanto fa e magari qualcosa sbaglia? Cosa è meglio per la collettività, le splendide profusioni infallibili di chi trova la tavola apparecchiata a scapito della collettività, magari serventi del bello e corretto, oppure il magari povero pollo diversamente e privatamente implementante che si trova dall’oggi al domani nella stessa condizione dello spiedo? Cos’è meglio? Cosa bisogna privilegiare, il mondo liscio come l’olio per chi non ha bisogno di scalare montagne, o il sudore di chi è chiamato a superare paletti messi da qualcuno che, nel frattempo, di sicuro ha la sua remunerazione.

Cosa è meglio o, meglio, ci sono priorità?

Ma poi, cari signori adepti degli obsoleti principi e norme, mai trasformabili per mancanza di accordo, Voi, come vivete? La vostra coscienza è estranea al debito pubblico, al debito così tanto avversato e poi accarezzato quando copre flussi di uscita che dissetano le migliori posizioni sociali? Del pensiero e dei principi, che mettono timbro sulla classe di appartenenza?

Per vivere e centrare l’obiettivo di fondo dell’uomo, che, lo ripeto, è quello di perpetrare la specie che, in intelligenza, sovrintende il creato, cosa serve, cos’è prioritario? E’ chiaro che il tema è forse complesso, ma certo molto delicato, perché nelle diseguaglianze, ciò che per me è scarto per te è lusso, ciò che per te è lusso, per me è scarto.

Allora, questa bicicletta, dove cazzo la mettiamo? Al muro, perché non ha il cavalletto? Oppure ci pensa qualche amico dell’amico di qualche casta accreditata che bastona gli innocenti, tende la mano ai suoi adepti e massacra le moltitudini?

In sostanza, come ultimo punto, diritti e doveri sulla carta, diritti e doveri nella realtà dei fatti, non è il momento di riallineare diritti e doveri, tra teoria (leggasi codici e norme) e pratica?




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